Eseguite da Giuseppe Ajmone molti anni fa, su commissione dell’Ansaldo di Genova, le due litografie in bianco e nero celebrano il lavoro svolto negli altiforni, incentrando tutto il pathos sull’operaio, una sorta di demiurgo intento all’opera che coinvolge in un tutt’uno la mano dell’artista e il sentimento di chi guarda.
Io osservo e mi tornano in mente le parole di Cesare Pavese ne Il mestiere di vivere:
4 maggio 1939
Fare qualcosa che non sia scopo a se stesso (come invece soffrire o godere) ma rivolto a un’opera, dà la serenità perché interrompe la noia senza impegnarci nella catena subita di sensazioni e sentimenti, e permettendoci invece di vedere dall’alto (serenità) un organismo che accetta leggi da noi (la nostra opera).
Di tutto il lavoro umano, e quindi anche dell’arte, l’elogio più grande è che ci consente di vivere in serenità, cioè di sfuggire al determinismo e imporre noi una legge alla materia e contemplare questa disinteressatamente nella sua azione.
Quello che i Greci dicevano della filosofia, che è contemplazione disinteressata e quindi l’attività più sublime, diciamolo di qualunque “tecne” che è vita disinteressata e cioè creazione di catene causali.
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15 maggio
… La massima sventura è la solitudine… l’opera equivale alla preghiera, perché mette idealmente a contatto con chi ne usufruirà. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. …